Storie Vere e Fantastiche dell'Isola di Sardegna --------------- Milis– Luglio 2010- --------<<O>>--------
--------<<O>>-------- Testo Fotografie e Grafica di Angelo Meridda Dessena -------<<O>>------- IL TAVOLO RACCONTA -------<<O>>------- Quì non vogliamo raccontare la storia di un tavolo qualsiasi, di quelli comprati al mercatino o da un comune commerciante di mobili dozzinali, fatti in serie, tutti uguali, ma di un Signor tavolo con la "T" maiuscola. Si tratta di un tavolo fatto a mano da un artigiano "maestro d'ascia" tanto e tanto tempo fa, forse più di duecento anni. Linea semplice ma robusta in legno massello di castagno che non viene roso dai tarli o da altri insetti. Apparentemente di piccole dimensioni, può essere aperto a formare un ampio piano di lavoro. Il modo di aprirlo è alquanto singolare:<< Abberi sa banca !!!>> (apri il tavolo) dicevano gli adulti e subito qualcuno di noi piccoli, a gara, si precipitava a spingere il ripiano del tavolo che poteva ruotare attorno ad un perno fissato sotto il ripiano ed inserito in un foro nella base del tavolo. Una volta sistemato il ripiano in posizione perpendicolare alla base, questo veniva aperto come se fosse la pagina di un libro. La superficie così ottenuta era molto grande ma a noi piccoli sembrava enorme perché quando si è piccoli tutto sembra più grande. Un tavolo così grande era indispensabile per una famiglia numerosa come la nostra: otto figli, babbo e mamma, una nonna materna ed una zia sorella di mia madre. In tutto dodici persone che calcolando tre pasti al giorno per una cinquantina d'anni, hanno consumato su quel tavolo la bellezza di circa 650.000 pasti. Da solenne "Patriarca", che stava sempre al centro della casa ed al centro dell'attenzione di tutti, ha assistito a tutti gli eventi lieti e tristi che hanno accompagnato la famiglia nel suo crescere e nel suo declinare. Lieti erano i giorni dell'abbondanza, pochi ma sempre aspettati con grande trepidazione; l'uccisione del maiale lo riempiva tutto di lardo, salsicce, carne, ossa e tante frattaglie e minutaglie ben sistemate e separate, pronte per essere conservate, perchè del maiale non si buttava nulla. Lieti i giorni in cui si faceva il pane in casa. Mia nonna la sera, prima di andare a letto, metteva al centro del tavolo, che per l'occasione rimaneva aperto, una certa quantità di farina e dentro ci metteva il lievito di casa (su fremmentalzu). Questo lievito era fatto con un pezzo di pasta fermentata lasciato dalla panificazione precedente che veniva conservato in un luogo caldo ed asciutto. Nella sommità si faceva una croce.
Mia nonna materna, Correddu Maria Grazia, era la proprietaria del tavolo di cui si parla. Lo aveva portato a casa dei miei genitori dove era andata a vivere assieme all'altra figlia nubile, dopo la morte del marito. Mia zia Caterina Dessena,sorella di mia madre, era quella che ha sempre avuto più a che fare col tavolo perchè era lei che sbrigava tutte le faccende di cucina preparando deliziose pietanze e manicaretti usando per lo più ingredienti semplici e poveri. Mia madre, Rosa Dessena si occupava dell'amministrazione di tutta la casa facendo molto spesso i salti mortali per far quadrare i conti di una piccola entrata (lo stipendio di mio padre) con una grande uscita (accudire ad una famiglia così numerosa). Il giorno della panificazione, mia nonna si alzava alle quattro del mattino e lavorava l'impasto aggiungendovi acqua ed altra farina. Quando noi piccoli ci alzavamo dal letto, il pane era stato già fatto da mia nonna, mia zia e mia madre ed era stato messo nei canestri a fermentare. Ma i grandi non si dimenticavano mai di noi piccoli perchè lasciavano sempre un pò di pasta per fare, assieme a noi, piccoli pani di forme particolari come pesci, uccelli, coroncine, cestinetti, ecc. ; uno per ciascuno. Spesso quando si faceva il pane, che doveva durare per parecchi giorni, si faceva anche la pasta consistente in genere in gnocchi fatti pigiando col pollice un pezzetto di pasta su di una forma di Questa pasta veniva chiamata "maccarronese de ungia" (maccheroni di unghia) perchè col pollice anche l'unghia veniva interessata nel loro confezionamento. Lieti i giorni delle feste solenni quando si facevano numerose ed abbondanti varietà di dolci come sospiri, papassini, biscotti, casadine, tericcasa, càbudoso, ecc. per lo più quasi tutti a base di pasta di mandorle che venivano macinate con una macchinetta simile ad un tritacarne. Oggi mi chiedo come avrà fatto un oggetto così piccolo ed apparentemente così fragile, anche se di metallo, a macinare tanti quintali di mandorle in tanti anni. Tanti e tanti ancora sono stati i giorni lieti ma tanti e tanti sono stati quelli tristi dei quali noi piccoli poco abbiamo sofferto perché non ne capivamo appieno la gravità ma il nostro "tavolo" è sempre stato lì al centro di tutto e di tutti. Alla morte di qualche familiare tutti si sedevano attorno al tavolo a discutere, a parlare del morto ed a mangiare (S'acconostu) i cibi portati dai parenti ed amici secondo l'usanza. Proprio per ricordare i propri cari defunti, nella notte del primo Novembre, i grandi di casa preparavano sul tavolo la "cena per i morti". < Il modo di apparecchiare la tavola per i morti varia nei diversi paesi della Sardegna. In molti posti non si mette né il coltello né la forchetta perché, i morti, potrebbero usarli per ferire i vivi. A Milis si usa mettere la forchetta e mai il coltello perché si racconta di uno che aveva messo per sbaglio anche il coltello ed il morto, dopo averlo usato, per conservarselo per il prossimo anno, lo aveva infilato nella gamba del padrone di casa. L'indomani, il padrone di casa si era alzato con un fortissimo dolore alla gamba ed aveva notato con meraviglia la mancanza del coltello. L'anno dopo il coltello non era stato messo a tavola ed il morto, ricordandosi del coltello conservato l'anno precedente, era andato a prenderselo togliendolo dalla gamba del padrone di casa che, l'indomani, con sua grande meraviglia, aveva ritrovato il coltello sul tavolo e non sentiva più alcun dolore alla gamba>. Giorni tristi erano i periodi di carestia con conseguente scarsità di cibo ed il tavolo, sempre testimone primario, sembrava anche più alto tanto erano leggeri i piatti e le pietanze servite a tavola. Questo di cui parliamo è un tavolo che ha fatto anche la guerra perché in quel periodo era proibito ai privati macinare in casa i cereali che invece dovevano essere conferiti all'ammasso e poi distribuiti equamente tra tutta la popolazione. In un cassetto del nostro tavolo mio padre aveva fatto un buco e lì aveva fissato un grosso macinino (simile a quello della foto ma senza la base in legno) col quale mio fratello maggiore, Nino, tutti i giorni doveva macinare una piccola quantità d'orzo, che mio padre aveva reperito per vie clandestine, e che doveva servire per fare il mangiare per il maiale. La mattina, per colazione, il tavolo non veniva quasi mai aperto perché si mangiava alla spicciolata ma per pranzo e cena veniva sempre aperto perché non si mangiava se non erano rincasati tutti. Nei suoi due ampi cassetti, uno per parte, venivano conservate tovaglie, tovaglioli e posate. E' bello ricordare l'infinità di giochi e passatempi fatti da noi bambini attorno, sopra e sotto il tavolo. Durante le interminabili serate invernali si metteva il braciere sotto il tavolo e noi piccoli ci sedevamo tutt'attorno attenti ad ascoltare le bellissime storie che mia nonna ci raccontava. Molto spesso, usando una vecchia coperta ed una scopa, il tavolo si trasformava nella tenda dei pionieri o degli indiani protagonisti dei pochi fumetti che avevamo a disposizione. Ma la nostra fantasia superava ogni limite quando giocavamo ai pirati. Allora, con qualche sgabello, due scope, un pezzo di spago ed alcune fave fresche il tavolo diventava la nave dei pirati della Malesia. Le fave fresche venivano appese allo spago che univa la prua e la poppa della nave ed erano, nella nostra immaginazione, le banane di cui i pirati si cibavano. Quando i pirati che erano sulla nave avevano fame, si alzavano in piedi e staccavano una delle fave come se stessero cogliendo una banana dall'albero. La tenevano in mano come si tiene una banana e poi la sbucciavano iniziando dalla punta del baccello ripiegando i lembi sui lati. In questo modo si mettevano a nudo i semi che venivano addentati direttamente dall'interno della buccia senza toccarli. Sono anche da ricordare le molte corse affannose che abbiamo fatto attorno al tavolo inseguiti dai grandi che volevano punirci per qualche marachella, ma che molto spesso finivano con la vittoria di noi piccoli perché i grandi si stancavano molto prima. Il ripiano del tavolo chiuso era il più usato ed anche quello che si sporcava di più mentre il piano interno, che doveva servire per mangiare, confezionare il pane, dolci ed altri cibi, doveva rimanere sempre pulito ed integro. Sul ripiano esterno, sempre a portata delle monellerie di noi bambini, si è venuta a creare con gli anni una specie di carta geografica della famiglia costituita da segni casuali, fatti senza volerlo anche dai grandi, e segni incisi intenzionalmente da noi piccoli che facevamo vere e proprie gare di incisione per vedere chi era più bravo ma che quasi sempre era quello che prendeva le punizioni più grandi. Sui bordi del ripiano del tavolo ci sono anche molti segni circolari che però sono stati fatti dalla morsa della macchinetta per macinare le mandorle. Ci sarebbe ancora tanto e tanto da dire su questi tavoli storici che in tutti i tempi hanno accompagnato, silenziosi e sempre disponibili, le famiglie nella loro vita quotidiana. Purtroppo oggi la moda, l'ignoranza ed il poco amore per tutte le cose di famiglia,considerate ormai (d'altronde come anche le persone anziane) inutili, poco pratiche, vecchie e sgangherate, spingono a metterle nelle cantine o nelle soffitte e, molto spesso, ancor peggio.... …..anche nel cassonetto delle discariche. Io oggi sono molto felice di aver potuto recuperare, restaurare e riutilizzare il vecchio e tanto amato “Tavolo di Famiglia”. Angelo Meridda Dessena via San Giorgio 19 09070 Milis (OR) tf.0783-51256 www.angelomeridda.it |